FABIO CAPACCIOLI"HO VISTO IL SUONO DI UNA TROMBA"

Fabio dice di se: La fotografia entra a far parte della mia vita, così come la musica, alla fine degli anni ‘70: solitario, autodidatta, inizio a scattar foto ed a “strimpellare” una chitarra. Sono questi i mezzi attraverso i quali cerco di dar sfogo ai miei stati d’animo, ai miei sentimenti e di dar vita alle mie emozioni.

Poi l’incontro casuale di un amico mi porta a frequentare un gruppo di appassionati della fotografia: “fabbricaimmagini”. E’ l’anno 2005 e da allora quello che potevo definire un semplice interesse si trasforma in vera passione. Condivido le mie immagini con gli amici del gruppo e con loro inizio un nuovo percorso che mi porterà poi a seguire i più importanti eventi nazionali di fotografia d’autore.

Un mio caro amico dice: “... il segno tuo è il non perfetto, il non finito della vita e del mondo, di tutto quello che ti sta attorno, tieni tutto sotto controllo per non disperdere niente per poterlo riprendere sempre.”

Astrazione, poetica dei luoghi, fondali ghirriani, queste sono le prime idee che balzano al cervello rivedendo le provinature stampate in formato similfrancobollo di Fabio Capaccioli, incontrato al portfolio dell'Ariosto in quel di Castelnuovo Garfagnana. Ma poi il suo titolo confonde ancora i pensieri che devono essere allineati, razionalizzati per scrivere su di lui.
"Ho visto il suono di una tromba".
Ma tutto è presto fatto, dopo che lo sguardo ancora una volta esce dalla finestra dello studio ad incontrare lo scenario di pioggia di questi mesi ed il silenzio che paradossalmente coincide con la patina mentale e leggera delle sue opere. Ma anche qui non è così: quel titolo è conglobante, come l'odore della pioggia. Quella di Capaccioli non è altro, come avviene nella contemporaneità, un modo di scrivere plurisensoriale; in realtà quelle foto emanano un suono, sono anche un suono, come ad esempio, l'assenza di tattilità in un lavoro quasi antimaterico che parte però dalla materia stessa. La magia della fotografia, della visione, ma anche della memoria, sogno di luoghi magari visti e ora delimitati dalla necessità del quadro della scrittura. La città ripercorsa nei suoi angoli più nascosti e personali, direi fortemente decontestualizzata in una visione "periferica" dello sguardo, quella cioè che non informa sullo spazio urbanistico. È ovviamente una visione interiore, razionalmente costruita nella dialettica del vuoto-pieno, del suono-silenzio che esalta quell'idea di frammento che è tipica della fotografia ma anche dell'astrazione. Il limite è provvisorio perché la realtà prosegue sempre al di fuori e anche nell'infinito mentale. L'autore tieni tutto sotto controllo, linee, colori di una tensione quasi morandiana.
Ogni tanto si riconosce un'entità, una finestra, un tubo dell'acqua, una tettoia, ma questo è l'aspetto meno interessante del problema.
È uno spazio senza tempo, l'essenza e la ragione del lavoro.
(Luigi Erba)